Io c’ero/ Terni, pronto soccorso: si parte bene, ma è solo un’illusione

di WALTER PATALOCCO

Finalmente! L’aria diventa un po’ più fresca, oggi è venerdì e forse domenica mangiare un bel piatto di tagliatelle al ragù, ma di quello “vero”, bello corposo, sarà possibile. Anche se un po’ dipende dal medico e dal “controllino” fissato per oggi pomeriggio.

Quasi impercettibile il movimento… ma mi è sembrato che il medico abbia storto un po’ il naso. “Bisogna fare un salto in ospedale” dice rassicurante. Le preparo tutte le carte. Vada domattina presto, prima delle otto, passi dal pronto soccorso…”.

Addio sogni di gloria. Chissà cos’è che dispiace di più… Niente ragù; che complicazioni ci saranno adesso, nonostante le rassicurazioni del medico, se c’è bisogno del ricorso all’ospedale? E poi: il pronto soccorso, quello dell’ospedale di Terni… Non ne parlano bene, pare ci sia chi vi ha trascorso giornate intere da “paziente precario”.

Sabato, otto meno un quarto. Eccoci al pronto soccorso. Documenti, sedia a rotelle: in cambio ti consegnano un foglio con un numero. Manco un minuto ed eccoti un giovanotto degli “addetti alla movimentazione”. Acchiappa la sedia a rotelle e sei dentro. Altra identificazione, altre informazioni e il giovanotto, maglietta e pantaloni rosso porpora con la scritta Cosp (come quelli della raccolta dei rifiuti… uhmm) ti parcheggia in un androne.

E adesso? Quanto resterò qui? Pochissimo. “Questo signore viene con me” dice una voce alle tue spalle. E’ un camice azzurro. “Scusi, vengo con lei, ma lei chi è?”. “Sono il medico”. E allora andiamo. Visita, altre carte. ” A posto dice”, qualcuno la chiamerà. Buongiorno”. E ti accompagna in una stanza attigua. Un bagno, una luce forte, una serie di sedie bianche lungo le pareti. E solo tu. “Ecco – pensi – le solite linguacce. Mezz’ora e ho già finito”.

L’aria fresca? Il condizionatore “a palla”? L’emozione e la tensione? Un salto in bagno ci vuole. Esci e già, in quattro cinque minuti, la saletta si è riempita per metà. Le sedie bianche sono quasi tutte occupate; c’è una barella, altre sedie a rotelle.

Comincia la chiamata dei numeri. Chi è “estratto” lascia la stanza. Eccoci, tra un po’ ci tocca… Intanto entrano altri. Ci ritrovi uno che conoscevi in gioventù. Si chiacchiera qualcuno si aggrega. E vai coi ricordi, gli aneddoti… Ed ogni tanto: “Ma a noi quando ci chiamano?”. Intorno è un via vai. Chi arriva chi parte. Chi si incazza perché – secondo lui – qualcuno è passato al posto suo (“Le solite conoscenze”). Alle due (h.14) una signora con un camice bianco si avvicina: “Ma lei non ha mangiato niente? Adesso ci penso io”. Dodici biscotti al plasmon e una bottiglietta d’acqua liscia, ma gelata.

Tre ore e mezzo dopo ecco qua: sei stato estratto. “Lei è fortunato – dice l’infermiera – s’è liberato un letto”. Ecco un altro rossoporpora che ti porta a destinazione. Ed eccoci al reparto. Un infermiere: “Glielo avete detto che il posto letto è in corridoio?”, domanda al portantino.

Fortuanatamente per me non ce n’era bisogno. Ne ero già sicuro, e ci sarei rimasto male se non fosse stato così.

A quel reparto – comunque – ero soltanto “aggregato”.

Mi sposteranno due giorni dopo, ma stavolta in stanza (il corridoio però è pieno lo stesso). Nuova, nuova. Bianca come una panetteria. Dieci giorni vi passerò, chiuso in un letto con le sponde rialzate, praticamente una cella di un metro quadrato e mezzo; un compagno di stanza educatissimo, che in tutti quei giorni avrà pronunciato forse una cinquantina di parole; infermieri e inservienti sempre di corsa, affannati: in media due-tre per trenta pazienti. Debbono arrivarle tutte. “Sa’, se qualcuno mi abbassasse la sponda del letto quanto meno potrei raccogliere quel che mi cade per terra”. “Non si può – è la risposta -ci dobbiamo pensare noi”.

Ma noi chi?

Lascia un commento