I ribelli trucidati dai Romani nella grotta del mistero

Quell’anno 450 dalla fondazione di Roma sembrava che dovesse concludersi nella noia più completa: i consoli Lucio Genucio e Servio Cornelio si trovavano a governare in un periodo di tregua. Niente guerre, nessuna operazione militare. Erano state fondate le colonie di Alba e Sora, la ribellione degli Ernici (popolazione che oggi diremmo del frusinate) era stata domata. E così, appunto, perché quell’anno 450 non trascorresse senza episodi militari da tramandare ai posteri, si organizzò una spedizione in Umbria. L’Umbria, per la verità, era stata conquistata dai Romani sei anni prima, pur se restava qualche “sacca di resistenza”. Nequinum, Narni, ad esempio non s’era sottomessa e restava una preoccupante spina nel fianco per l’espansione di Roma. Ma non Nequinum ci si prese di petto: sarebbe stata una campagna troppo impegnativa e difficile.
La potenza militare Romana fu impegnata per eliminare quella che la storiografia ufficiale definì una banda armata la quale aveva eletto a proprio rifugio una caverna. Da lì i banditi si muovevano – scrissero gli storici Romani – per compire frequenti scorrerie: furti, assassinii, “ed altri eccessi”. I Romani si mossero come conveniva ad una grande potenza militare. Inviarono diverse compagnie di milites col compito di trovare e arrestare o sterminare (non c’era differenza) i ladroni. La faccenda, in effetti, era qualcosa di più complicato e di diverso. La caverna intanto era composta da una serie di cunicoli, una vasta rete che partendo dalla base di una montagna arrivavano fin quasi alla sommità dove si trovava un secondo ingresso. E la potenza di Roma fu tenuta in scacco dai “ladroni”, tanto che perfino gli storici “di regime” ammisero la difficoltà dei soldati Romani nel dover combattere in quei cunicoli bui dove invece i loro avversari sapevano muoversi con grande rapidità. Gli assalti costarono numerosi morti e feriti alle truppe Romane che a quel punto cambiarono tattica. Strinsero d’assedio l’entrata della grotta, che si trovava in prossimità di una strada che, successivamente, fu sostituita dalla Flaminia. Un assedio che fu lungo e che durò fino a quando non scopersero un secondo ingresso da cui gli assediati uscivano per procurarsi il cibo. A quel punto decisero di stanarli: bloccarono entrambi gli ingressi con “gran quantità di legna secche e verdi” cui appiccarono il fuoco, inondando di fumo le gallerie sotterranee. Gli storico Romani hanno scrittodi duemila ladroni morti. Ma, si sa, spesso le esagerazioni in casi del genere sono all’ordine del giorno. Appare comunque certo che le vittime dei Romani furono ben più di un centinaio. Non danno, gli storici, riferimenti: dov’era questa rete di cunicoli? Come mai non se n’è trovata mai traccia? In fondo sono passati poco più di duemila anni, un sospiro rispetto ai tempi geologici.
C’è chi ha pensato alla grotta di Orlando, presso Narni, ma ha subito escluso la possibilità. C’è chi riferisce di un eccidio di banditi a Collescipoli. E c’è uno scritto della fine del ‘700 (“L’Umbria vendicata”, scritto sotto pseudonimo dallo storico Antonino da San Gemini) che cita testimonianze secondo cui la grande caverna si sarebbe trovata tra Spoleto e Terni, ad una dozzina di chilometri dal Ponte delle Torri, sul lato destro della Flaminia (che all’epoca di fatti non esisteva ancora pur se c’era ovviamente una viabilità preesistente), nella zona di Molinaccio. Anzi, tra le testimoniane si legge anche che uno dei due ingressi era allora, nel 1600, ben visibile, ma che poi fu murato per decisione governativa perché la grotta continuava ad essere usata come ricovero dai briganti. Da quell’ingresso si apriva – riferiscono – un’ampia caverna che si inoltrava per chilometri nelle viscere della terra per poi sbucare all’interno di uno dei castelli esistenti sulle montagne. Testimonianze che lasciano ipotizare anche una spiegazione diversa da quelle “ufficiali” sulle motivazioni di tanto impegno da parte di Roma: che quelli non fossero solo ladroni ma anche una “banda” che resisteva all’imposizione delle leggi di Roma fomentando la ribellione contro di esse.

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