Il 6 novembre 1980, il consiglio comunale di Terni prese una decisione “storica”: i negozi cittadini sarebbero rimasti aperti il sabato pomeriggio.
Da una quindicina di anni, infatti, il sabato pomeriggio al centro di Terni non c’era un negozio aperto: al massimo rimaneva qualche vetrina illuminata, ma impossibile comprare alcunché. Una città quasi deserta, fatta eccezione per le strade dello “struscio”, praticamente corso Tacito, la principale strada del centro cittadino. C’erano ovviamente molti giovani, cui si aggiungeva chi capitava in qualche bar o chi usciva dal cinema. Per il reso tutto chiuso. Chi proprio doveva comprare qualcosa raggiungeva i centri vicini. Perché in tutta Italia, tra i capoluoghi di provincia, due sole erano le città dove era tutto chiuso di sabato pomeriggio. Una era, appunto, Terni, l’altra era Como i cui cittadini avevano l’abitudine, nel pomeriggio antecedente la domenica, di salire circolare e andare a far spese a Chiasso o a Lugano, in Svizzera.
Tra i consumatori ternani sembra che ci fosse chi riteneva quantomeno utile porre fine a una situazione singolare. A muoversi per prima fu la Coop che lanciò una raccolta di firme: ne raccolse ventiduemila, che non certo poche in una città che aveva centomila abitanti.
E così il consiglio comunale decise. Una decisione sofferta, perché non mancarono le polemiche, tanto è vero che la raccolta delle firme era stata fatta ben due anni prima che la decisione fosse presa, andandoci oltretutto con i piedi di piombo. Il provvedimento, si specificò, avrebbe avuto natura sperimentale e sarebbe rimasto in vigore per sei mesi. A fronteggiarsi, nelle polemiche, erano la Coop e la Cgil che difendeva le esigenze dei dipendenti del sistema commerciale, vale a dire – in gran parte – le commesse. In mezzo stava il Comune, governato, come si sa, da una giunta Pci-Psi.
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